Categoria: Diritto di Famiglia

Servizi sociali e processi affidativi di minori

Per affrontare il tema in parola è indispensabile maturare il concetto che l’assistente sociale sia un professionista dalle molteplici funzioni; alcune delle quali, come vedremo, in conflitto tra loro.

Rappresenta, inoltre, nel divenire delle procedure giudiziali, un terminale di deflusso di situazioni (persone e relazioni) che per le più disparate ragioni hanno visto l’intervento fallimentare di altre professioni.

L’intervento dell’assistente sociale pone le radici nell’istituzione dei tribunali per i minorenni nel 1934 (l. 1404) e, nel tempo, vede trasformare, con l’evolvere dei costumi, la sua funzione dal trattamento dei minori “traviati e bisognosi di correzione morale”, alla funzione (ri)educativa, per giungere al sostegno di cui oggi sentiamo parlare e sul quale ci interroghiamo circa limiti e contenuti.

Nella riorganizzazione delle competenze Stato Regioni attuata dal D.P.R. 616/1977, i Comuni divengono l’ente deputato alla erogazione degli interventi in favore dei minori soggetti all’autorità giudiziaria; normativa, questa, resa attuale nel corpo della Legge quadro sul sistema dei Servizi Sociali del 2000 (L. 328).

Questo spiega alcune pronunce di “affidamento all’ente” nei casi più gravi di incapacità genitoriale.

Il corpo normativo anzidetto, tuttavia, non ha però delineato margini certi per determinare i contenuti delle prestazioni assistenziali ed ha lasciato, nel tempo, che prassi consolidate avanti il tribunale per i minorenni trasmigrassero tout court avanti i tribunali ordinari.

 

Attività assistente sociale: rilievi critici

Un primo ordine di rilevi critici, quindi si delinea già ed ha fondamento nell’origine delle deleghe e, quindi, nel genere di attività che all’assistente sociale vengono richieste: mentre, difatti, i tribunali ordinari delegano ai servizi di intervenire in cause che pongono problematiche di conflittualità nella relazione tra genitori, e quindi necessitano di un genere di intervento di ordine mediativo o coordinativo, i tribunali per i minorenni dispongono l’intervento dei servizi in procedure che vedevano il minore in stato di abbandono o di maltrattamento; il che, implica un genere di intervento assolutamente diverso dal primo.

Le attività cui il servizio sociale potrà essere chiamato potranno essere di vigilanza (per la segnalazione all’autorità giudiziaria delle situazioni di rischio o di pregiudizio), o di informazione rivolta al giudice (di indagine sulle condizioni di vita del minore ed al suo contesto familiare e sociale).

Potrà inoltre, essere demandato di funzioni di sostegno e di accompagnamento per la realizzazione dei dispositivi adottati dal giudice o di controllo sull’esecuzione dei provvedimenti del giudice.

Ebbene, mentre le prime attività descritte, ossia quelle inerenti la vigilanza per segnalazione all’A.G. e informative rientrano, obtorto collo, nell’alveo delle mansioni ascrivibili alle figure ausiliarie del giudice (art. 68 Cod. Proc. Civ.), le seconde, ossia di accompagnamento e controllo potrebbero dare maggiori problemi di legittimità se si considera che esse potrebbero esprimersi addirittura quando il processo è definito.

 

Cosa è cambiato con la riforma Cartabia

La recente riforma ha in parte posto rimedio meglio delineando, rispetto al passato, le attività che l’assistente sociale può svolgere nel processo.

L’art. 473 bis, n. 23 Cod. Proc. Civ., ad esempio, regolamenta l’intervento dei servizi sociali o sanitari nei procedimenti a tutela dei minori.

Recita la nuova norma che l’attività cui saranno chiamati a svolgere sarà indicata in modo specifico con fissazione di termini. Le parti potranno accedere alle relazioni depositate (1) e fare memorie. Le relazioni dovranno essere fondate su fatti oggettivi, su metodologie e protocolli della comunità scientifica.

Un quadro, quindi, assai più rispettoso dei principi informatori della materia rispetto al passato (2).

Il problema, tuttavia, si pone per quei provvedimenti che dettano intervento dei servizi per un tempo ultrattivo rispetto il processo, sia nei contenuti della delega, sia riguardo ai soggetti passivi (beneficiari del trattamento), sia nei tempi di durata.

Il contenuto dell’intervento (sociale o sanitario) deve essere specifico dell’attività demandata ma i termini, a norma di legge, saranno determinati solo per il deposito di relazioni. Da ciò, si desume che l’intervento dei servizi, qualunque sia il suo oggetto (sociale o sanitario) potrebbe non avere termine (3).

Non avendo, ancor’oggi, una cornice definita, il sostegno a favore della persona ben potrà essere rifiutato.

Parimenti potrà essere rifiutato, dal maggiorenne, l’intervento sanitario, terapeutico o psicologico.

Qualora, invece, il sostegno sanitario demandato all’ente vedesse un minore come soggetto passivo, il magistrato non potrebbe dimenticare di pronunciarsi con provvedimento specifico nell’ampio margine che l’articolo 333 c.c. concede disponendo una diversa ripartizione in campo sanitario che limiti quella naturale dei genitori in favore dell’ente stesso cui affida delega.

Definito il procedimento, tuttavia, non vi sarà verifica giurisdizionale stabile, nessun giudice che controlli, avendo previsto, la riforma, unicamente la facoltà di adire nuovamente al giudice competente (che sarà in linea di massima quello che ha emesso il provvedimento) in caso di difficoltà di attuazione o impedimenti.

Legittimati attivi (e passivi) della domanda saranno, normalmente, i genitori e gli stessi ausiliari, cui il 4° comma dell’art. 473-bis n. 38 c.p.c. dà facoltà di formulare domanda (anche verbale) ove sorgessero ulteriori difficoltà di attuazione.

Quanto al contenuto delle attività di sostegno, nel perdurante silenzio del legislatore, chi scrive ritiene possano avere contenuto pedagogico-clinico; notoriamente non sanitario.

Una questione pratica di non poco rilievo, infine, si porrà in quei Comuni di piccole dimensioni che vedono la presenza di un solo assistente sociale il quale, per ovvie ragioni, non potrà svolgere funzioni investigative durante il processo e poi, terminato quello, assumere veste di operatore del sostegno alla persona che ha investigato.

Alla luce delle considerazioni che precedono, appare certamente più definita, rispetto al passato, la funzione del servizio sociale nell’ambito processuale. Restano, tuttavia, ampie zone d’ombra nelle attività che esso potrà svolgere a processo concluso.

(1) Per ottenere altro genere di documentazione, ossia per la documentazione non depositata nel processo, gli utenti del servizio sociale potranno fare accesso agli atti facendo leva anche sulla normativa deontologica dell’assistente sociale che, a mente dell’art 13 C.D., impone all’assistente sociale di adoperarsi in tal senso.

(2) Per la violazione dei quali principi lo Stato italiano veniva più volte condannato dalla CEDU; per ultimo, con sent. del 24 giugno 2021 – ricorso n. 40910/19 – Causa A.T. contro Italia.

(3) Sulla inopportunità degli incontri protetti senza termine si veda il Manuale psicoforense dell’età evolutiva, Giuffrè editore, 2018.

 

Ricordo, una decina di anni fa, il ministro dell’economia Padoa Schioppa che, nel presentare la manovra economica del governo, e -forse- per elogiare il lavoro del suo dicastero per aver previsto sussidi per quei giovani che decidevano di uscire da casa affermò: La manovra contiene misure come l’aiuto di mille euro l’anno previsto per i ventenni-trentenni che prendono casa in affitto: mandiamo i bamboccioni fuori casa”.

Lo sfortunato ministro venne criticato con asprezza; aveva toccato in un colpo solo due dogmi sociali: -la casa-, intesa come luogo di coesione familiare, -e la mamma-, nella sua funzione più iconografica di genitore affettivo-accudente.

Il ministro, però, non aveva torto. I nostri figli restano a casa più del dovuto e, nel 50% delle famiglie, tale è il numero delle famiglie separate in Italia, restano per lo più con la mamma. Il papà, genitore che dovrebbe svolgere funzioni di affrancazione ed emancipazione del giovane adulto è lontano; emarginato dalla prevalenza del materno che la giurisprudenza affidativa declina più o meno rigidamente.

Notoriamente l’interpretazione nomofilattica della cassazione pone, quali elementi fondanti la cessazione dell’obbligo di mantenere i figli maggiorenni, due dati fattuali contrapposti: l’intervenuta indipendenza economica o la colpevole inerzia del figlio [[1]].

V’è da dire, però, che la cristallizzazione dei suddetti principi ha lasciato, recentemente, il passo a più miti interpretazioni laddove la giurisprudenza di merito e di legittimità [[2]] ha moderato le aspirazioni del figlio maggiorenne in ragione delle particolari condizioni di accesso al mercato del lavoro e, quindi della necessità di mitigare le aspirazioni, nonché del principio di autoresponsabilità volto a evitare forme di parassitismo.

Altro principio che è emerso -e che si lega a quello dell’autoresponsabilità-, è quello della funzione educativa del mantenimento che valuta il tempo medio necessario all’inserimento del giovane nel mondo del lavoro.

In base a tale principio, l’avvocato -prim’ancora del magistrato- dovrà, prima di consigliare il proprio cliente per una causa di revisione, valutare l’eventuale condizione di fragilità del figlio, la diligenza della prosecuzione dei suoi studi, il tempo trascorso dalla conclusione degli studi, i tentativi effettuati per la ricerca del lavoro.

Un ultimo cenno merita il tema dell’onere probatorio che, da recente giurisprudenza di merito, non può dirsi sempre e solo a carico del genitore poiché, in base al principio della “prossimità della prova”[[3]], non può tradursi in un onore eccessivo che renda troppo arduo o addirittura impossibile l’esercizio dell’azione giudiziaria[[4]]: si pensi, appunto, al padre che -non vivendo in casa col figlio, magari in altra città- non può documentare se il giovane trascorra o meno le sue giornate su internet cercando lavoro o guardando tik tok.

[1] Per tutte, Cass. Civ. 26 aprile 2017 n. 1027.

[2] Tribunale di Verona 26 settembre 2019; Corte di Cassazione del 29 dicembre 2020 n. 29779.

[3] Principio nato nel diritto amministrativo ma che inizia a trovare spazio anche nel diritto civile.

[4] Corte di Cassazione ord. 17183 del 14 agosto 2020.

Da tempo seguo, per mediazioni e consulenze, pressoché esclusivamente le vicende di coppie separate o divorziate residenti in città lontane. Le caratteristiche di questi casi sono così peculiari e complesse, che potrei asserire di aver sviluppato una sorta di “specializzazione” su di esse.

Se già l’attività mediativa è di ardua realizzazione in quanto, per il suo buon esito, presuppone una disponibilità sincera e convinta di chi vi prende parte – dovendo essere scevra il più possibile dal desiderio di ottenere vantaggi personali in vista di un bene supremo della prole – quella da svolgersi con genitori residenti in città diverse lo è enormemente di più.

Cambiano, come si immaginerà, molti aspetti del quotidiano e di taluni altri ne cambia il senso profondo. A chilometri di distanza le telefonate, ad esempio, assumono un’importanza diversa, oppure i colloqui con i docenti divengono più difficoltosi e così via per molti altri aspetti.
La gestione della distanza, insomma, deve prevedere un modo di condurre il progetto di mediazione in modo specifico e mirato.

La scelta della scuola, ad esempio, non può e non deve essere ad appannaggio prevalente od esclusivo del genitore presso il quale il bambino ha la sua residenza, poiché la preferenza di un plesso scolastico in luogo di un altro non è questione meramente pratica riferibile “all’edificio” scuola, ma coinvolge anche l’aspetto qualitativo della struttura, il piano formativo che essa proprone, le attività aggiuntive che sono presenti (corsi di inglese, di informatica, di musica o sportivi), gli orari, la mensa, il tipo di utenza e molte altre cose. Non vige, quindi, il concetto “città mia – scelta mia” proprio perché questo aspetto della vita dei figli, che uso come mero esempio esplicativo, reca in sé molte importanti sfaccettature.

Così, sul tema della salute: deve esserci una scelta congiunta del medico di base, così come degli specialisti e di ogni decisione di carattere sanitario (ad esclusione delle decisioni strettamente d’urgenza, che possono essere prese dal genitore in quel momento presente con il figlio).

Vi è anche un aspetto a cui nessuno pensa se non i diretti interessati: mentre il genitore presso cui il figlio ha la residenza può contare sulla struttura scolastica nella quale i figli trascorrono le ore in cui egli è al lavoro (o almeno gran parte) e, nel caso di malattia, può parimenti fare affidamento gratuito sul Servizio Sanitario Nazionale, altrettanto non avviene per l’altro genitore che non ha alcun apoggio statale e che deve organizzarsi, nei propri orari di lavoro, con parenti, baby-sitter, medici privati e quant’altro.

Nella mediazione, pertanto, anche questi aspetti e differenze devono essere tenuti in considerazione e deve essere condotto un lavoro paziente ed equilibrato che possa ridurre al minimo gli attrtiti ed esaltare al massimo la tutela dei figli.