Autore: Paola Grandinetti

I figli sono coinvolti pienamente nel processo di disgregazione del nucleo familiare e, per emettere sentenze che riguardino la loro vita, così come in presenza di posizioni conflittuali tra i genitori, l’ascolto dei minori si rivela fondamentale affinché il giudice possa assumere decisioni ponderate che tengano conto anche del parere del diretto interessato e che siano finalizzate alla sua tutela.

La sua opinione, naturalmente, deve essere presa in considerazione, da parte del giudice, in funzione della sua età, della sua maturità e della sua capacità di discernimento.

Già nel 1989 la Convenzione di New York, all’art. 12, sanciva il diritto del fanciullo capace di discernimento di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo riguardi.

Così, anche la Carta Europea dei diritti fondamentali (c.d. Carta di Nizza, dicembre 2000), all’art. 24, ribadiva il punto.

C’è da ricordare, poi, che la Convenzione di Strasburgo del 1996 (ratificata con L. 20 marzo 2003 n. 77) riconosce il diritto del minore, avente capacità di discernimento, a ricevere ogni informazione pertinente il suo caso, ad essere consultato e a poter esprimere la propria opinione e ad essere informato delle eventuali conseguenze che tale opinione comporterebbe nella pratica.

Dopo aver ribadito l’importanza dell’ascolto del minore (L. 54/2006), la legislazione italiana ha inserito nella L. 219/2012 il diritto del figlio che abbia compiuto i 12 anni di età, o di età inferiore se capace di discernimento, ad essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano.

La riforma della filiazione (d. lgs. 154/2013), inoltre, ha introdotto la regola dell’audizione del minore per i provvedimenti che lo riguardano, poiché il giudice è tenuto ad adottare i provvedimenti relativi ai figli con esclusivo riferimento all’interesse materiale e morale di questi (artt. 337ter c.c., riformato dalla Cartabia e 227 octies c.c. abrogato dal decreto legislativo n. 149/2022, come modificato dalla Legge 197/2022).

Giuridicamente, dunque, l’ascolto del minore diventa il presupposto affinché i provvedimenti giudiziari che lo riguardano non siano affetti da vizi procedurali.

Con la Riforma Cartabia sono state previste norme specifiche che riguardano sia l’ascolto del minore che la mediazione, ponendo quest’ultima espressamente nel codice di procedura civile.

Si tratta dell’art. 473bis.10 del Codice civile, il quale dispone che il giudice possa, in ogni momento, informare le parti della possibilità di avvalersi della mediazione familiare e invitarle, se lo ritengano, a rivolgersi ad un mediatore.

Qualora ne ravvisi l’opportunità, il giudice, ottenuto il consenso delle parti, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui all’articolo 473 bis 22 per consentire che si possa tentare una mediazione volta soprattutto a tutelare l’interesse morale e materiale dei figli.

Ciò non sarà possibile (art. 473 bis.43) nel caso in cui sia stata pronunciata una sentenza di condanna o l’applicazione della pena, anche in primo grado, nel caso penda un procedimento penale in una fase successiva ai termini di cui all’art. 415 bis c.p.p., o per condotte di abusi familiari o di violenza domestica o di genere e se queste condotte emergano in corso di causa.

Tale riforma ha anche precisato nei dettagli la procedura, inserendo due norme specifiche.

L’articolo 473bis.4 c.p.c. che dispone che il minore che abbia compiuto 12 anni o più piccolo, ma capace di discernimento, venga ascoltato dal giudice ogni volta che debbano essere emanare provvedimenti che lo riguardano.

Viceversa può non essere ascoltato dal giudice, che deve motivare questa decisione con apposito provvedimento, nel caso in cui l’ascolto sia in contrasto con il suo interesse o se manifestamente superfluo, se il minore è impossibilitato per problematiche fisiche o psichiche, oppure se il minore manifesta la volontà di non essere ascoltato.

L’art. 473bis.5 c.p.c. che si occupa delle modalità di ascolto del minore, ossia se il giudice possa procedere in autonomia o con l’assistenza di esperti e ausiliari e che debba tenersi, se possibile in locali idonei, diversi dalle aule del Tribunale.

Si deve stabilire, poi, quali saranno i temi di discussione e i difensori, nonché il curatore speciale, possono chiedere di approfondire certi temi.

L’eventuale partecipazione diretta dei figli agli incontri di mediazione familiare condotti da professionisti formati nel campo psicologico, ha, accanto ad alcuni aspetti certamente positivi, una serie di rischi che, anche se valutati preventivamente, potrebbero comunque manifestarsi e che fanno propendere, nella stragrande maggioranza dei casi ad escluderli. Ad esempio, i figli potrebbero trovarsi ad assistere a nuove discussioni tra i genitori per il raggiungimento degli accordi. Oppure, i genitori potrebbero non sentirsi liberi di esprimere completamente le loro esigenze e le loro perplessità in presenza dei figli. Questi ultimi, poi, potrebbero essere sottoposti a pressioni durante l’incontro, per favorire il punto di vista dell’uno o dell’altro genitore o percepire sminuita l’autorità genitoriale.

La loro presenza agli incontri di mediazione sarebbe invece da contemplare in casi laddove il mediatore ritenga opportuno sentire la loro opinione in caso di conflittualità difficilmente gestibile o di poca chiarezza circa le reali necessità dei figli stessi.

Dott.ssa Paola Grandinetti
Mediatore Familiare

Finalità della Mediazione Familiare

  • offrire ai genitori un contesto strutturato in cui con l’aiuto del mediatore riescano a gestire il conflitto a vantaggio della capacità di negoziare gli accordi;
  • aiutare i genitori a cercare soluzioni più adatte alla specificità della loro situazione e dei problemi per tutti gli aspetti che riguardano la relazione affettiva ed educativa con i figli;
  • sostenere i genitori nella ricerca di accordi durevoli, puntando a una trasformazione della loro relazione e non soltanto alla ‘soluzione’ di un problema contingente.

Obiettivi della Mediazione Familiare

  • garantire la continuità dei legami genitoriali per il mantenimento di stabili e significativi rapporti dei figli con entrambi i genitori;
  • incentivare la responsabilità congiunta nelle decisioni da prendere per i figli;
  • raggiungere l’equilibrio doveri/diritti dei genitori verso i figli;
  • facilitare la comunicazione tra i genitori nella gestione dei figli;
  • stimolare la collaborazione dei genitori nella gestione dei figli;
  • ricreare un clima di fiducia che permetta di mantenere un livello di rispetto reciproco tra i genitori.

Bibliografia: “Mediazione Familiare: il giudice, l’avvocato e il mediatore” di Gloria Servetti, Daniela Rodella, Chiara Vendramini, Officina del Diritto – Giuffrè Francis Lefebvre Editore

La Mediazione Familiare è un percorso per la riorganizzazione delle relazioni familiari in vista o in seguito alla separazione o al divorzio.

Il mediatore familiare, sollecitato dalle parti, nella garanzia del segreto professionale e in autonomia dall’ambito giudiziario, si adopera affinché i genitori, insieme, elaborino in prima persona un programma di separazione, che tenga conto degli aspetti psicologici, relazionali, patrimoniali e organizzativi, soddisfacente per sé e per i figli, in cui possano esercitare la comune responsabilità genitoriale.

Rispetto al recente scenario in cui i riferimenti alla Mediazione Familiare sono stati disorganici, la Riforma Cartabia sistematizza e dà valore alla Mediazione Familiare quale risorsa per la gestione della conflittualità tra genitori che affrontano la vicenda separativa, siano essi legati da vincolo matrimoniale o no, e lo fa nell’ambito di un più ampio disegno di introduzione di un rito unico che verrà trattato avanti ad un tribunale unico specializzato.

La Mediazione Familiare è un percorso di costruzione e di gestione della vita tra i membri di una famiglia per la riorganizzazione delle relazioni familiari in vista o in seguito alla separazione, sia la coppia sposata o convivente, o al divorzio. Il percorso si svolge alla presenza di un terzo indipendente e imparziale, il mediatore familiare che, con una preparazione specifica, sollecitato dalle parti, nella garanzia del segreto professionale e in autonomia dall’ambito giudiziario, accompagna i genitori, debitamente informati e liberamente consenzienti, verso una finalità concordata innanzitutto tra loro.

Il mediatore facilita il confronto tra i genitori su tutti gli aspetti relativi alle relazioni con i figli (ad esempio educazione, istruzione, salute, mantenimento, tempo libero, frequentazioni, organizzazione della presenza di ciascuno accanto ai figli) e su altri temi oggetto di disaccordo (quali, ad esempio, le questioni economiche) in modo che siano i genitori stessi, in prima persona, a elaborare un programma di separazione soddisfacente per loro e per i figli in cui poter esercitare la comune responsabilità genitoriale.

In questo lavoro il mediatore, in una serie limitata di incontri (circa 10-12), facilita la comunicazione tra i genitori accompagnandoli e sostenendoli nella ricerca di soluzioni realistiche, favorisce la collaborazione, la negoziazione e lo scambio costruttivo tra loro, astenendosi da qualsiasi compito valutativo o interpretativo. La sua azione è unicamente compositiva, aiutando i genitori a passare dal piano dello scontro a quello del confronto.

Bibliografia: “Mediazione Familiare: il giudice, l’avvocato e il mediatore” di Gloria Servetti, Daniela Rodella, Chiara Vendramini, Officina del Diritto – Giuffrè Francis Lefebvre Editore

Chi si accinge ad un’analisi delle CTU nel diritto di famiglia italiano – e chi scrive, per svolgere l’indagine in modo statisticamente attendibile, ha preso visione di una cinquantina di esse – non può che domandarsi, in molti casi purtroppo, che fine abbiano fatto il buon senso e l’importanza, per i figli, di una crescita sana ed  equilibrata.

Una miriade di voci che prendono corpo dalle carte, in cui, molto di frequente, si perde di vista il benessere e la tutela dei fanciulli in un esasperato tentativo di restare ancorati, anche di fronte all’evidenza scientifica contraria, a radicati stereotipi, danneggiando, anziché tutelare, il “supremo interesse del minore” nel nome del quale si dice di operare.

CTU che assumono un’importanza dirimente e che si tramutano ben presto in sentenze, divenendo, per gli anni a seguire, veri e propri dogmi che sconfessano ogni evidenza di parità dei sessi e dei ruoli familiari e non tengono nel giusto conto la necessità di un figlio di crescere avendo accanto entrambi i genitori.

Il problema ab origine: la disposizione stessa della CTU

Come più che condivisibile, molti psicologi sottolineano l’incongruità della ormai frequente disposizione di una CTU nell’ambito del diritto di famiglia per la statuizione dei tempi di frequentazione, del collocamento, affidamento e quant’altro, dato che, tale ambito, non riguarda questioni di tipo psicologico o psichiatrico, bensì di carattere giuridico.

Si deve riflettere, infatti, come in tali frangenti non ci si trovi davanti a valutazioni di carattere penale ove, viceversa, l’aspetto psicologico/psichiatrico potrebbe rivelarsi dirimente, come nel caso in cui una grave psicopatologia possa aver indotto qualcuno a compiere gesti penalmente perseguibili, od ancora, in ambito civile, nel caso in cui si debbano analizzare le capacità cognitive di un soggetto per predisporre l’assegnazione di un tutore, od anche, se si stia valutando l’idoneità per un’adozione.

La disposizione di una CTU in ambito separativo dovrebbe essere disposta in presenza di specifiche, gravi ed evidenti problematiche; per tutto il resto, conflittualità inclusa, il giurista dovrebbe essere del tutto autonomo. E qui si apre un’altra questione: ha il magistrato il tempo ed il modo per studiare approfonditamente il singolo caso? Riesce il giudice a trovare spazio per calarsi nella questione specifica che non può essere uguale a quella precedentemente valutata e, pertanto, la relativa disposizione non potrà mai essere quella di prassi? Ci siamo chiesti come mai ogni famiglia sia diversa, ogni coppia di genitori ed i loro figli siano unici, ogni divorzio abbia problemi differenti, ma le sentenze siano nella stragrande maggioranza dei casi uguali? Ecco, così, che per avere una risorsa in più il giudice o i genitori fanno impropriamente richiesta di una CTU.

I quesiti

Il secondo grande problema nella diffusione a macchia d’olio delle CTU in ambito separativo, risiede nell’errata formulazione dei quesiti e del peso che le risposte date hanno nel successivo giudizio.

L’errore primario è che i suddetti quesiti sono tendenzialmente uguali all’interno di uno stesso tribunale rispetto alle, naturalmente differenti, coppie di genitori. Le richieste fatte al CTU, difatti, vengono riproposte in modo pressoché identico pur riferendosi a  situazioni diverse nella loro peculiarità.

Si parte sempre dall’immancabile, eppure, nella sua formulazione, maggiormente criticabile quesito, che solitamente consiste in “Valuti il CTU le competenze genitoriali attraverso diagnosi psicologica relativa alla personalità delle parti, utilizzando anche test psicologici”.

Questo è un quesito errato.

I test psicologici sono diventati ormai imprescindibili per la valutazione delle capacità genitoriali ma, attraverso questo genere di indagini, il CTU deborda abbondantemente oltre i confini del proprio mandato ed è errato già il solo presupposto di base, ossia il principio di dover analizzare i due soggetti nelle loro capacità genitoriali: si dovrebbe, piuttosto, valutarne, l’eventuale incapacità. Uomini e donne che sino al giorno prima della separazione erano padre e madre ma che, dopo questo passo, devono improvvisamente darne prova.

In questi casi si parte dal concetto, non giustificato scientificamente, secondo il quale, per valutare le capacità genitoriali sia necessario l’esame clinico delle parti, con tanto di Test delle Macchie di Rorschach e del MMPI-2. In tal modo il giudice richiede un profilo psicologico senza tener conto che la personalità non è correlabile scientificamente e automaticamente con le capacità genitoriali e che non vige la logica “personalità perfetta = bravo genitore” esattamente come non è vero il contrario. Non esiste alcuna congruità tra le capacità genitoriali e la personalità. Non è raro il caso di soggetti che risultino “nella norma” nei test ma, nella concretezza della vita di tutti i giorni, siano decisamente ostacolanti nell’acceso al figlio da parte dell’altro genitore. Padri o madri che non risultano portatori di gravi patologie psicologiche e che poi non fanno vedere il figlio all’altro genitore per mesi oppure lo denigrano apertamente in presenza della prole.  Si dovrebbe avere contezza del fatto che taluni, a volte, sono semplicemente vendicativi o cattivi o poco dotati intellettualmente e che questo genere di caratteristiche non emergono in modo preponderante nei test.

Ci sono anche altre considerazioni da fare. In base a quali evidenze scientifiche possiamo affermare che la teoria di un CTU riguardante la personalità dei due individui osservati sia più attendibile di quella del CTP? Si tiene conto, ad esempio, che in tale genere di indagine esiste la teoria psicodinamica ma anche quella cognitivista o quella pragmatico-relazionale, solo per citarne alcune? Quale la più attendibile? Ciò significa che ogni valutazione di un consulente sul tipo di personalità sia da ritenere frutto di personali considerazioni che, difatti, vengono non di rado smentite da un collega CTP e, dunque, sono prive di indubitabile validità scientifica e come tali non utilizzabili se non come mere suggestioni.

Si ribadisce, pertanto, che qualsiasi indagine sulla personalità dei genitori sia priva di senso perché non ne esiste una tipologia che renda un soggetto buon genitore o meno.

Solamente qualora, nel corso della CTU, il consulente ravveda od intraveda seri disturbi di personalità, dovrebbe suggerire l’indagine ed i test, perché solo in quel caso effettivamente ci potrebbero essere ripercussioni sul ruolo genitoriale e, di conseguenza, sui figli.

Peraltro, le corpose relazioni peritali, dense di esami psicologici inutili e fuorvianti per la causa, espongono i due soggetti esaminati ad una privazione del diritto della privacy, poiché ogni dettagliato resoconto ed ogni sfumatura della loro personalità viene resa nota, oltre al giudice, anche al cancelliere, agli avvocati, al CTP e via discorrendo, con abusante fruizione dello stesso da parte dei legali di controparte che, non di rado, ne fanno uso in successive udienze.

In ultimo, si noti che questo genere di sistema, nelle dinamiche interne alle coppie conflittuali, aumenta a dismisura la conflittualità in una sorta di competizione a chi sia risultato migliore nei test o nel modo in cui educa il figlio, con evidente perdita del focus sull’interesse della prole.

Il ruolo del Consulente tecnico d’ufficio ed i suoi confini

L’Associazione Italiana Consulenti Psico Forensi ed alcuni ordini regionali di psicologi, hanno precisato come lo psicologo forense sia tenuto, nelle CTU in diritto di famiglia, ad operare nei limiti delle proprie competenze che non possono debordare dal proprio ruolo di ausiliario dell’Autorità Giudiziaria; suo compito è effettuare esclusivamente i rilievi tecnici di supporto ai provvedimenti giudiziali.

Il CTU pertanto non potrebbe esprimersi o rispondere – poiché di pertinenza dell’Autorità Giudiziaria – a quesiti inerenti la tipologia di affidamento dei figli, il regime di frequentazione tra figli e genitori, il collocamento della prole o il suo mantenimento.

Non potrebbe esprimersi, inoltre, riguardo a fatti oggetto di querela o denuncia perché di pertinenza dell’Autorità Giudiziaria e non dovrebbe  suggerire ai genitori, nemmeno sotto forma di invito, trattamenti sanitari (sostegno psicologico, psicoterapia, esami medici ecc.) perché vietato dalla Costituzione ex art. 32.

Per i fatti oggetto di querela o denuncia, infatti, non è certo nelle competenze del CTU stabilire se siano reali o meno eventuali episodi di violenza o di abuso, ma la cosa va statuita da un giudice nell’ambito di un processo penale, nel corso del quale verranno predisposte specifiche e mirate consulenze tecniche. Purtroppo, assai di frequente, i CTU si sbilanciano in valutazioni nel merito, negando a priori violenze o abusi, senza aver svolto indagini mirate sul minore.

Per quanto riguarda l’esortazione ad intraprendere trattamenti sanitari, pressoché sempre, si legge l’altro errato quesito: “indichi il CTU l’opportunità di un eventuale intervento terapeutico e, nell’affermativa, la forma e le modalità dell’intervento stesso, nonché gli obiettivi del programma proposto, ma, come abbiamo visto, questa indicazione il CTU non può fornirla nemmeno sotto forma di invito.

Come giustamente è stato proposto dall’ordine degli psicologi della Calabria, in risposta agli errati quesiti, il CTU dovrebbe rispondere:

“Ai quesiti peritali che possano contenere richieste con esplicite/implicite deleghe al Consulente a cui viene chiesto di esprimersi attraverso giudizi o altri profili di competenza dell’Autorità Giudiziaria, lo Psicologo Forense informa l’A.G. e le parti sull’impossibilità di rispondere a tali quesiti chiedendo di riformularli in base alle competenze comprese nell’alveo delle Scienze Psicologiche in ambito forense”.

Pregiudizi e reticenze

Sia sufficiente menzionare una serie di considerazioni fatte in alcune CTU per comprendere i pregiudizi e le reticenze che ancora oggi mostrano come ci sia un grave ritardo culturale.

Si noti che, a chi scrive, non è capitato di leggere CTU contenenti proposte conclusive incongruenti con quanto analizzato durante le operazioni peritali in cui tali incongruenze fossero a danno di madri; tuttavia si desidera sottolineare che tale risultanza non deriva assolutamente da una presa di posizione personale o da una selezione apposita di consulenze, ma solamente che questo è stato il risultato oggettivo tratto da un significativo campione statistico di consulenze tecniche d’ufficio analizzate e che, certamente, esistono, anche se in misura decisamente inferiore, casi in cui discrepanze ed errate conclusioni si volgono in danno di madri.

  • Primo caso

In merito ad una pregressa distribuzione dei tempi – 5 giorni al mese al padre e 25 alla madre – il CTU scrive: “Tempi sbilanciati di frequentazione possono aver alimentato le dinamiche conflittuali presenti nella coppia separata” ed ancora “(…) una pari distribuzione del tempo trascorso con ciascun genitore sviluppa il più alto livello di sicurezza emotiva di un bambino (…).“Le ricerche sull’importanza della figura paterna nella vita dei figli sono ormai numerose e depongono a favore di un migliore equilibrio psicologico (stima di sé, attitudini cognitive, abilità sociali: pro-socialità) sviluppato in quei minori che hanno avuto la possibilità di avere un accesso di tipo paritario (…) e il tipo di affidamento che non sia valorizzante entrambe le figure genitoriali può esporre il minore ad un rischio di IPERDOMINANZA PATERNA nociva per il minore tanto quanto il MECCANISMO DI IPERPOTEZIONE MATERNA poiché minaccerebbe lo sviluppo delle autonomie di un figlio nelle competenze intellettuali ed interpersonali con elevate possibilità che possano sviluppare timidezze e paure, soffocare le competenze, creare disequilibri come rilevato dalle ricerche scientifiche sull’argomento”. Ed ancora: “Per AFFIDAMENTO PARITETICO (O MATERIALMENTE CONDIVISO) si intende che il genitore non collocatario possa passare con il figlio un limite minimo del 33% del tempo rispetto al genitore collocatario e questa percentuale corrisponde al numero MINIMO di 10 pernotti al mese”.

Date queste ottime premesse il lettore cosa si aspetterebbe? Una più equa distribuzione dei tempi, si risponderà.

E invece no: il CTU concede 8 giorni con il papà e 22 con la mamma (variazione minima rispetto alla precedente).

Ciò che maggiormente colpisce è che il CTU stesso scrive chiaramente che questo non va bene per il bambino e che per la conflittualità della coppia è argomento di discussione, ma, evidentemente, il radicato pregiudizio più di questo non permette.

Si noti bene, come utile inquadramento del caso, che il CTU segnala più volte come la madre abbia : “creato problemi relativi alle richieste del padre di accesso al figlio (problemi sugli orari, problemi sul diritto di visita durante le malattie del bambino, sulla consegna di alcuni documenti del bambino stesso anche di tipo sanitario) e più in generale che la madre abbia creato problemi nel dare il figlio al padre.”

La madre è stata anche ammonita dal Tribunale per aver adottato condotte ostacolanti la bigenitorialità e ha fatto istanza per iscrivere da sola il figlio in una scuola diversa rispetto a quella concordata e indicata nella sentenza divorzile.

Si segnala, inoltre, che la madre, rispetto al padre sia stata valutata :  “ (…) la madre sulla questione collegata ad alcune questioni (educative e sanitarie) si può ritenere non essere stata alla stessa altezza del padre in quanto a costanza, tempestività, qualità delle scelte effettuate. (…) Si tiene comunque conto del fatto che la madre in passato, rispetto agli impegni educativi legati al suo ruolo (vedi mancata Iscrizione al primo anno della Scuola dell’Infanzia) ha mostrato incoerenza ed incongruità (…) il padre risulta quindi essere tempestivo e accurato nella cura mentre la madre si è rivelata sufficiente e le carenze possono riguardare la costanza, la tempestività o la qualità delle scelte educative/sanitarie .

Ultimo, ma non ultimo, in questo caso il CTU si è sbilanciato nell’asserire, facendo riferimento a denunce penali per presunti maltrattamenti, che il bambino non presenta esiti in tal senso. Si noti, però, che il bambino è stato dal CTU incontrato solo una volta per un’ora nell’ambito di un appuntamento il cui oggetto di osservazione non era lui ma i suoi genitori e mai è stato indagato in modo mirato alla rilevazione di possibili esiti di maltrattamento, né sottoposto ad alcun tipo di domanda o fatto disegnare all’uopo. Si ricordi, inoltre, quanto detto sopra sulla non liceità di indagini in tal senso del CTU.

  • Secondo caso

La CTU rileva un manifesto disagio del bambino a fronte di “comportamenti della madre percepiti come “strani”, aggressivi e pericolosi” manifestati a seguito di abuso di bevande alcoliche.

Si prosegue nella relazione specificando che il bambino ha chiaramente manifestato la propria preoccupazione nel caso in cui egli si trovi con la madre presso la sua dimora, a causa di ripetute situazioni del passato in cui ha visto quest’ultima in condizioni di malessere e di non lucidità. La madre, peraltro, vede pendenti indagini nei suoi confronti per l’accertamento di presunti episodi di maltrattamento, suscettibili di ripetersi ulteriormente e di rappresentare quindi una seria condizione di pregiudizio per il minore.

Ciò nonostante viene determinata una ripresa della frequentazione serale e notturna con la madre da svolgersi in brevi tempi ed un breve periodo di monitoraggio su tale ripresa, tempi che non possono certamente dare adeguate garanzie rispetto all’equilibrio psicofisico della madre e sulla valutazione delle capacità genitoriali della stessa.

Ma in aggiunta si dica anche che, nonostante la capacità genitoriale paterna sia stata valutata in modo assai positivo e nonostante venga dato rilievo a quanto il bambino faccia affidamento sulla figura del padre, non è dato comprendere come mai il figlio non venga affidato al padre, bensì ai servizi sociali! Si piega, peraltro, all’interesse della madre quello che invece dovrebbe essere il superiore interesse del bambino, in quanto lo stesso viene visto dai servizi sociali e dal CTU come utile “fattore terapeutico” per la cura delle dipendenze da alcool materne.

  • Terzo caso

Il CTU concede alla madre la possibilità di trasferirsi con il figlio a 1000 km di distanza rispetto alla città in cui hanno sempre risieduto e in cui abita anche il padre, rendendo in tal modo assai faticoso per il bambino doversi spostare tra le due dimore, nonché assai dispendioso per il genitore.

Il lato maggiormente significativo risiede nella motivazione della richiesta materna, ossia che il trasferimento sarebbe dovuto alla sua necessità di lavorare e che non potrebbe trovare occupazione nella città del nord dove il bambino avrebbe accanto entrambi i genitori,  mentre, senza alcun dubbio, lo troverà nella sua città natìa del sud Italia. Alcune problematiche rispetto alle possibilità di lavorare sono insindacabili ma colpisce come il CTU si affidi esclusivamente alla parola e alla buona volontà materna nell’appoggiare questa scelta così devastante nell’equilibrio di un figlio che avrà grandi difficoltà a vedere il padre e dovrà percorrere 2000 km al mese per recarsi da lui, senza prevedere per lo meno un periodo di osservazione per verificare che effettivamente altra soluzione lavorativa nella città in cui tutti e tre vivevano non esista ma, soprattutto, che esista un’occupazione reale e stabile nella nuova residenza.

  • Quarto caso

Nella propria relazione il CTU segnala fortemente la problematica personalità di una madre, la sua volontà di mantenere il rapporto esclusivo e simbiotico con i figli (giungendo persino ad indurre il figlio ad inviarle di nascosto i messaggi presenti sul cellulare del padre), prosegue con la descrizione dell’intento alienante della stessa e la relativa palese minaccia alla bigenitorialità, mentre, parallelamente, riscontra una maggiore affidabilità del padre riguardo alla salvaguardia del diritto alla bigenitorialità. Tutto ciò chiaramente rilevato e descritto, tuttavia, nelle conclusioni non porta ad adottare alcun adeguato provvedimento.

Anche in questo caso, dunque, viene descritto un quadro realistico della situazione, ma le conclusioni non risultano affatto coerenti al quadro medesimo e alla madre, pur riconosciuta come alienante, viene anche concesso di aggravare la situazione trasferendosi in altra città con la prole, con prevedibili risultati.

Conclusioni

Ciò che appare incredibile è che, pur essendo evidente che siano diffusissime le separazioni conflittuali ed i figli che rifiutano un genitore o che manifestano disagi a causa dei tempi impari in cui possono stare con l’uno o l’altro, od ancora che patiscono l’impedimento del contatto con uno dei due genitori causato dall’ostruzionismo dell’altro, la maggior parte dei tribunali lo continuino ad ignorare, preferendo rimanere ancorati a proposte e sentenze “copia ed incolla”, anziché entrare veramente nel merito dell’analisi del caso specifico. Quel che è peggio è che, talora, il giudice delega il CTU per valutare il caso specifico, ma il medesimo, senza ragionevole spiegazione, ignora tutte le considerazioni fatte in corso d’analisi,  persino le parole da lui stesso scritte e, nelle proposte conclusive, riporta quasi sempre la canonica distribuzione di tempi e collocamenti.

Serve una presa di posizione netta e decisa da parte della magistratura perché forse, ciò che sfugge nei tribunali, è che l’evidente compromissione della salute psicologica e fisica dei figli coinvolti in separazioni difficili, abbia assunto lo statuto di un vero e proprio problema di salute pubblica e che, se non si corre ai ripari, le future generazioni saranno sempre maggiormente composte da giganti con i piedi d’argilla.

Da tempo seguo, per mediazioni e consulenze, pressoché esclusivamente le vicende di coppie separate o divorziate residenti in città lontane. Le caratteristiche di questi casi sono così peculiari e complesse, che potrei asserire di aver sviluppato una sorta di “specializzazione” su di esse.

Se già l’attività mediativa è di ardua realizzazione in quanto, per il suo buon esito, presuppone una disponibilità sincera e convinta di chi vi prende parte – dovendo essere scevra il più possibile dal desiderio di ottenere vantaggi personali in vista di un bene supremo della prole – quella da svolgersi con genitori residenti in città diverse lo è enormemente di più.

Cambiano, come si immaginerà, molti aspetti del quotidiano e di taluni altri ne cambia il senso profondo. A chilometri di distanza le telefonate, ad esempio, assumono un’importanza diversa, oppure i colloqui con i docenti divengono più difficoltosi e così via per molti altri aspetti.
La gestione della distanza, insomma, deve prevedere un modo di condurre il progetto di mediazione in modo specifico e mirato.

La scelta della scuola, ad esempio, non può e non deve essere ad appannaggio prevalente od esclusivo del genitore presso il quale il bambino ha la sua residenza, poiché la preferenza di un plesso scolastico in luogo di un altro non è questione meramente pratica riferibile “all’edificio” scuola, ma coinvolge anche l’aspetto qualitativo della struttura, il piano formativo che essa proprone, le attività aggiuntive che sono presenti (corsi di inglese, di informatica, di musica o sportivi), gli orari, la mensa, il tipo di utenza e molte altre cose. Non vige, quindi, il concetto “città mia – scelta mia” proprio perché questo aspetto della vita dei figli, che uso come mero esempio esplicativo, reca in sé molte importanti sfaccettature.

Così, sul tema della salute: deve esserci una scelta congiunta del medico di base, così come degli specialisti e di ogni decisione di carattere sanitario (ad esclusione delle decisioni strettamente d’urgenza, che possono essere prese dal genitore in quel momento presente con il figlio).

Vi è anche un aspetto a cui nessuno pensa se non i diretti interessati: mentre il genitore presso cui il figlio ha la residenza può contare sulla struttura scolastica nella quale i figli trascorrono le ore in cui egli è al lavoro (o almeno gran parte) e, nel caso di malattia, può parimenti fare affidamento gratuito sul Servizio Sanitario Nazionale, altrettanto non avviene per l’altro genitore che non ha alcun apoggio statale e che deve organizzarsi, nei propri orari di lavoro, con parenti, baby-sitter, medici privati e quant’altro.

Nella mediazione, pertanto, anche questi aspetti e differenze devono essere tenuti in considerazione e deve essere condotto un lavoro paziente ed equilibrato che possa ridurre al minimo gli attrtiti ed esaltare al massimo la tutela dei figli.