Fino a quando un padre deve mantenere i figli?
Ricordo, una decina di anni fa, il ministro dell’economia Padoa Schioppa che, nel presentare la manovra economica del governo, e -forse- per elogiare il lavoro del suo dicastero per aver previsto sussidi per quei giovani che decidevano di uscire da casa affermò: “La manovra contiene misure come l’aiuto di mille euro l’anno previsto per i ventenni-trentenni che prendono casa in affitto: mandiamo i bamboccioni fuori casa”.
Lo sfortunato ministro venne criticato con asprezza; aveva toccato in un colpo solo due dogmi sociali: -la casa-, intesa come luogo di coesione familiare, -e la mamma-, nella sua funzione più iconografica di genitore affettivo-accudente.
Il ministro, però, non aveva torto. I nostri figli restano a casa più del dovuto e, nel 50% delle famiglie, tale è il numero delle famiglie separate in Italia, restano per lo più con la mamma. Il papà, genitore che dovrebbe svolgere funzioni di affrancazione ed emancipazione del giovane adulto è lontano; emarginato dalla prevalenza del materno che la giurisprudenza affidativa declina più o meno rigidamente.
Notoriamente l’interpretazione nomofilattica della cassazione pone, quali elementi fondanti la cessazione dell’obbligo di mantenere i figli maggiorenni, due dati fattuali contrapposti: l’intervenuta indipendenza economica o la colpevole inerzia del figlio [[1]].
V’è da dire, però, che la cristallizzazione dei suddetti principi ha lasciato, recentemente, il passo a più miti interpretazioni laddove la giurisprudenza di merito e di legittimità [[2]] ha moderato le aspirazioni del figlio maggiorenne in ragione delle particolari condizioni di accesso al mercato del lavoro e, quindi della necessità di mitigare le aspirazioni, nonché del principio di autoresponsabilità volto a evitare forme di parassitismo.
Altro principio che è emerso -e che si lega a quello dell’autoresponsabilità-, è quello della funzione educativa del mantenimento che valuta il tempo medio necessario all’inserimento del giovane nel mondo del lavoro.
In base a tale principio, l’avvocato -prim’ancora del magistrato- dovrà, prima di consigliare il proprio cliente per una causa di revisione, valutare l’eventuale condizione di fragilità del figlio, la diligenza della prosecuzione dei suoi studi, il tempo trascorso dalla conclusione degli studi, i tentativi effettuati per la ricerca del lavoro.
Un ultimo cenno merita il tema dell’onere probatorio che, da recente giurisprudenza di merito, non può dirsi sempre e solo a carico del genitore poiché, in base al principio della “prossimità della prova”[[3]], non può tradursi in un onore eccessivo che renda troppo arduo o addirittura impossibile l’esercizio dell’azione giudiziaria[[4]]: si pensi, appunto, al padre che -non vivendo in casa col figlio, magari in altra città- non può documentare se il giovane trascorra o meno le sue giornate su internet cercando lavoro o guardando tik tok.
[1] Per tutte, Cass. Civ. 26 aprile 2017 n. 1027.
[2] Tribunale di Verona 26 settembre 2019; Corte di Cassazione del 29 dicembre 2020 n. 29779.
[3] Principio nato nel diritto amministrativo ma che inizia a trovare spazio anche nel diritto civile.
[4] Corte di Cassazione ord. 17183 del 14 agosto 2020.