Autore: Francesco Tesoro

Ai fini della configurabilità del delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare, il soggetto obbligato in sede di separazione legale dei coniugi non può sostituire arbitrariamente la somma di danaro stabilita dal giudice civile con “regalie” di beni voluttuari o, comunque, inidonei ad assicurare il quotidiano soddisfacimento delle esigenze primarie. In tal senso si è pronunciata la Sesta Sezione penale della Corte di Cassazione nella sentenza n. 14025 del 5 aprile2024.

Il Tribunale di Verbania condannava Tizio per il reato di violazione degli obblighi di assistenza famigliare nei confronti del figlio minore alla pena sospesa di due mesi di reclusione e al risarcimento in favore della parte civile costituita.

Tizio impugnava la sentenza avanti alla Corte di appello di Torino, che confermava la sentenza di primo grado, condannando l’imputato al pagamento delle spese processuali e delle spese di rappresentanza e assistenza nei confronti della parte civile costituita.
Tizio ricorre in Cassazione, deducendo:

a) la insussistenza del reato, in quanto l’imputato aveva ceduto il proprio credito di tremila euro nei confronti del datore di lavoro alla compagna, e, dunque, la mancata percezione dell’assegno di mantenimento per il figlio minorenne sarebbe dovuta non già ad un inadempimento dell’imputato, bensì dell’ex compagna;

b) la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.: la Corte di appello non avrebbe considerato che l’imputato aveva disposto due bonifici di cento euro ciascuno nei confronti del figlio e che, comunque, aveva consegnato danaro e generi di prima necessità alla madre, a titolo di mantenimento del figlio.

c) l’inadempimento si sarebbe protratto solo per undici mensilità e, dunque, non avrebbe assunto carattere di abitualità; dopo tale lasso di tempo l’imputato, peraltro, avrebbe integralmente versato l’assegno di mantenimento e avrebbe versato anche l’importo omesso nel lasso di tempo oggetto del presente giudizio.
Per la Cassazione i motivi sono infondati:

1) ai fini della configurabilità del delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare, il soggetto obbligato in sede di separazione legale dei coniugi non ha la facoltà di sostituire, di sua iniziativa, la somma di denaro stabilita dal giudice civile a titolo di contributo per il mantenimento con un altro bene, quando tale prestazione sia inidonea ad assicurare una concreta e rapida disponibilità economica ad un soggetto privo di capacità reddituale;

2) nel caso di specie, l’obbligo di mantenimento nei confronti del figlio minore non può essere assolto dal genitore a mezzo della cessione di un credito verso un terzo, peraltro di complessa escussione e di incerta realizzazione;

3) quanto poi alla mancata applicazione della causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, la giurisprudenza prevalente ritiene, che la causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cod. pen o è applicabile al reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, a condizione che l’omessa corresponsione del contributo al mantenimento abbia avuto carattere di mera occasionalità: nel caso in esame, la Corte di appello ha, tuttavia, escluso, non certo illogicamente, la mera occasionalità della condotta inottemperante dell’imputato, in quanto la stessa si è protratta per oltre un anno.

Bibliografia: Avv. Anna Andreani – avvocatoandreani.it Risorse Legali

Scarica la Sentenza della Cassazione n. 14025/2024

Il provvedimento di nomina dell’esperto, un intervento efficace sotto il profilo della ripresa o del miglioramento dei rapporti tra i minori e i genitori, non può prescindere da un’indagine sulle motivazioni che hanno provocato le difficoltà relazionali. Per aiutare a superare il conflitto è necessario conoscerne le cause ed appare opportuno – se non doveroso- che sia lo stesso professionista a compiere tale verifica. L’esperto dunque può sia assumere compiti di natura valutativa, che individuare le attività necessarie per risolvere i conflitti e offrire sostegno.

Trattandosi di un ausiliario del giudice (più esattamente appartenente alla categoria residuale degli “altri ausiliari” di cui all’art. 68 c.p.c. contrapposta agli ausiliari tipici) che opera in una situazione di terzietà, facendo applicazione analogica dell’art. 193 c.p.c., può affermarsi che anche l’esperto ex art. 473 bis.26 c.p.c. debba svolgere la sua funzione sotto il vincolo del giuramento.

Nel caso in esame il Giudice ha disposto, in accordo con il padre, la sospensione degli incontri padre-figlio, a seguito del rifiuto opposto dal minore, fino a quando l’esperto nominato ne avesse ritenuta opportuna la ripresa.

Scarica il Decreto del Tribunale Ancona – Dott. Valerio Guidarelli – 4 marzo 2024

In tema di diffamazione commessa per il tramite di una piattaforma di interazione sociale, nel corso degli ultimi due decenni i Giudici di legittimità hanno radicato nella giurisprudenza della Suprema Corte un indirizzo consolidato – o, meglio, univoco –, alla cui luce le condotte lesive della reputazione altrui, realizzate attraverso un post recante espressioni offensive e pubblicato su Facebook, integrano gli estremi del reato di “diffamazione aggravata”, prevista e disciplinata dal terzo comma dell’art. 595, c.p.

In tale solco interpretativo si colloca la recente sentenza della Corte di Cassazione qui in commento, che, muovendosi nella direzione di ulteriormente rafforzare il precedente orientamento giurisprudenziale, afferma che un post offensivo rientra nell’ambito di applicazione della fattispecie astratta in parola, anche quando l’autore di esso non faccia nomi; ai fini della sussistenza del reato si richiede, tuttavia, che il soggetto passivo di esso sia in ogni caso individuabile, anche solo all’interno di una cerchia ristretta di persone.

Le considerazioni contenute nel documento scaricabile, propongono una lettura in parte critica del suddetto indirizzo interpretativo di legittimità, non prima di aver richiamato la giurisprudenza precedente in materia di diffamazione aggravata a mezzo social e di aver commentato le motivazioni offerte dalla Cassazione nella pronuncia che si annota.

Bibliografia: E. Bruno, Si configura il reato di diffamazione aggravata (art. 595 c. 3 c.p.) a mezzo Facebook (pur) in assenza dell’indicazione dei nomi delle persone offese, in Giurisprudenza Penale Web, 2022, 9



Scarica la sentenza: Cassazione Penale, Sez. V, 25 marzo 2022 (ud. 10 dicembre 2021), n. 10762

Scarica l’articolo commentato: Si configura il reato di diffamazione aggravata a mezzo Facebook anche in assenza dell’indicazione dei nomi delle persone offese.

La riforma Cartabia nel processo familiare e minorile ha previsto -in caso di domande di natura economica-, l’onere per le parti di allegare la documentazione attestante la situazione reddituale e patrimoniale personale e familiare, sanzionando la mancata o incompleta produzione di tale documentazione.

Per la verità, la novella ha fatto propri protocolli di pratiche già in precedenza in uso in alcuni tribunali italiani; per tutti, ricordo Genova, Verona e Milano.

In questi, i modelli utilizzati recavano -e recano giacché ancora in uso- l’elenco dettagliato dei redditi, patrimoni e spese che compongono quel “tenore di vita” alla base delle decisioni sul mantenimento (dei figli o del coniuge debole che sia). Mentre, infatti, i redditi dichiarati (o patrimoni fruttiferi) costituiscono presunzione di capacità di spesa, la spesa -di contro- è la riprova dei primi: si pensi, ad esempio, caso limite ma significativo, ad un genitore che dichiara al fisco 1.000,00€/mese e tutti gli anni va in vacanza in Costa Smeralda con la sua BMW.

Compresa la funzione dei modelli dichiarativi in uso nei citati tribunali e le finalità che la riforma Cartabia ha imposto nei casi di domande giudiziali di contenuto economico, ossia obblighi di correttezza e probità tra le parti in causa, si allega un modello “disclosure” -dichiarazione relativa ai redditi e patrimonio- cui quanti si approcciano a separarsi, divorziare o chiedere l’affidamento dei figli saranno chiamati a documentare.

Potrete scaricare il documento in modo da comprendere bene cosa sarete chiamati a dichiarare e documentare al tribunale in caso di separazione, divorzio o affidamento minori.

Avv. Francesco Tesoro

Scarica il modello della Dichiarazione Reddituale-Patrimoniale

La riforma del diritto di famiglia Cartabia ha introdotto (all’art. 473-bis n. 12 Cod. Proc. Civ.) l’onere dei genitori che approcciano al processo familiare e affidativo dei propri figli, la redazione del cosiddetto Piano Genitoriale ossia di un documento che rechi indicazione “degli impegni e le attività quotidiane dei figli relative alla scuola, al percorso educativo, alle attività extrascolastiche, alle frequentazioni abituali e alle vacanze normalmente godute”.

La formulazione, forse eccessivamente sommaria della legge, accede -invece- ad uno strumento che ritengo essenziale alla realizzazione di ciò che chiamo il divorzio di successo; ossia, la programmazione proficua di un futuro da genitori, in luogo di quella naufragata da coniugi.

Il Piano Genitoriale nasce dall’esperienza della professoressa Debra K. Cater, psicologa, e viene trasfuso in Italia dalla professoressa Silvia Mazzoni che ne ha curato la sperimentazione in Italia anche attraverso strutture pubbliche quali sono gli uffici dei Servizi Sociali.

Esso si compone dell’insieme delle notizie che riguardano la vita dei vostri figli: istituto scolastico (percorso formativo), necessità mediche (pediatra e/o specialisti), attività extra-scolastiche (sport, corsi di musica o altri), modalità di frequentazione dei figli con entrambi i genitori (ordinarie, festive e feriali), oneri di accudimento.

La realizzazione dei Piano Genitoriale potrà avere due obiettivi.

Nel caso in cui questo sia redatto da entrambi i genitori (cosa che si consiglia di fare nell’ambito di un percorso di sostegno mediativo o coordinativo) avrà lo scopo di agevolare la realizzazione di un ricorso congiunto in tribunale con riduzione dei tempi di accesso al giudice, nonché risparmio di oneri e spese (oltre che di risorse emotive).

Nel caso invece, non si voglia (o non si riesca) a realizzare un unico Piano Genitoriale condiviso, il documento redatto solo da uno avrà l’obiettivo di far conoscere al giudice le abitudini di vita dei figli in costanza di coniugio e rappresentare come il singolo genitore voglia organizzare la vita nel futuro.

Comprenderete, quindi, l’importanza di un tale approccio.

Potrete scaricarlo e iniziare a familiarizzare con le sue particolarità poiché, come detto, è un documento essenziale (e va necessariamente prodotto).

Avv. Francesco Tesoro

Scarica il modello del Piano Genitoriale

La responsabilità delle persone od enti a cui lasciamo in custodia i nostri figli per i motivi più diversi, che si tratti di studio, svago o altro, sono chiamati ad esercitare un controllo attento e, ove mai capitasse qualcosa al minore, il loro comportamento sarà vagliato attentamente.

Nel caso in esame, un papà ed una mamma lasciavano il loro figlio (di 12 anni) ad un centro estivo perché lì trascorresse parte dell’estate imparando l’inglese e giocando con i suoi pari.

La permanenza, però, veniva interrotta bruscamente a causa di un infortunio che il fanciullo subiva giocando a palla e le versioni rese dagli astanti (tutti dipendenti del centro) non erano del tutto convincenti; di qui la causa.

Il giudice chiarisce, nella sentenza in commento, la responsabilità per i precettori -che è la medesima dei genitori, dei tutori e dei maestri d’arte- e che è di natura oggettiva: l’essere genitori o avere tutela di un minore non emancipato per insegnare lui o semplicemente tenerlo in attesa che i genitori tornino, rende responsabili dei danni che lo stesso può arrecare (anche a sé stesso) salva l’esimente di non aver potuto impedire il fatto. Ossia di aver operato tutte le cautele e che l’evento sia costituito da un fatto assolutamente imprevedibile ed imponderabile.

Scarica la Sentenza del Tribunale di Roma

Ho ricevuto a studio due papà, di recente, nelle cui rispettive storie ho potuto osservare assonanze. Entrambi mi chiedevano di affrancarsi dall’obbligo di mantenimento; cosa che, devo dire, non mi dava particolare preoccupazione, avendone valutato i presupposti tanto nel primo quanto nel secondo caso.

Ad incuriosirmi erano i vissuti dei figli (e dei loro genitori), ragazzini al tempo del divorzio e ora adulti in difficoltà.

Giulio (nome di fantasia), il primo papà, aveva due figlie che non vedeva e sentiva da anni e chiedeva che la più grande (ormai trent’enne laureata) potesse ritenersi ormai autonoma; Alberto, il secondo padre, aveva un solo figlio, Marco, trentacinquenne, che pure non vedeva da anni. Questi, però, differentemente dalle figlie di Giulio, non aveva raggiunto traguardi scolastici; si era fermato alle medie. Era disoccupato e passava le giornate al PC, chiuso nella ex casa familiare.

Insomma, un eremita contemporaneo; ndr. hikikomori.

A differenza dell’eremitismo, cui riconosciamo -oltre all’isolamento fisico- caratteri di autosufficienza, di meditazione, libertà (affrancazione dai bisogni), isolamento sociale (fisico e metafisico), gli hikikomori, pensavo, sono in effetti altro: non sono autosufficienti (abbisognano che altri portino loro il necessario per vivere), non rappresentano vocazioni meditative e l’isolamento è meramente fisico (sono collegati ad altri tramite pc). Non c’è cenno alla libertà; anzi, vivono in spazi angusti (alcuni addirittura con vetri oscurati).

Pare che gli hikikomori in Italia siano uno ogni 250, per lo più di sesso maschile, figli unici. Pochi studi a testimoniarne i caratteri; l’ultimo, autorevole, è dell’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR IFC [1].

In Giappone si stima siano addirittura un milione (!) e gli studi sono diversi.

Ma quali assonanze sociali tra il nostro Bel Paese e quello d’oriente?

Certamente sono, l’Italia ed il Giappone, due società fortemente ancorate a principi morali ed etici radicati; penso, ad esempio, all’onore che da noi, almeno sino al 1981 (ossia, l’altro ieri), giustificava violenza sessuale e fisica. Ed alla declinazione giapponese, che vedeva la perdita dell’onore, conseguente ad una sconfitta, come vergogna indelebile.

Penso, ancora, alla ripartizione dei ruoli familiari nelle due realtà accumunate, in questo ambito, da una rigida visione dell’uomo (padre) lavoratore e della donna (madre) regina del focolare domestico (Moretti 2010).

Rifletto, infine, sul sistema motivazionale dominante che, nella cultura orientale è di tipo affiliativo [2] la cui declinazione, nella dimensione italiana, tanto ricorda la tipica famiglia meridionale, luogo di protezione e garanzia di operosità.

Penso, da giurista, alla legislazione affidativa dei figli che in Italia ha visto il protrarsi di affidi monogenitoriali (ndr. collocamenti prevalenti e sbilanciati), malgrado la Legge di affido condiviso e la legge nipponica che ancor oggi prevede un rigidissimo affido esclusivo alla madre oltre che la mancata adesione alla Convenzione dell’Aja sulla protezione dei Minori.

Ebbene, uno dei fattori di rischio evidenziati [3] nel fenomeno degli hikikomori è, guarda caso, l’assenza del padre -emotiva o fisica- che, in Giappone, letteralmente scompare dalla vita dei figli qualora si pervenga a divorzio.

Diversi studiosi concludono apertamente per la causa di attaccamento ambivalente in luogo dell’attaccamento sicuro (Bowlby 1969), interpretabile come risposta adattiva del bambino a modalità di cura che privilegiano la dipendenza emotiva dalla madre [4].

Ecco, dunque, che “Marco, il trentacinquenne figlio unico, disoccupato che non esce di casa e che a breve perderà il mantenimento del padre, ha una sua spiegazione” mi dico rileggendo i nomi dei giudici che nel 1997 decretavano una frequentazione del figlio col padre di tre ore al giovedì, tre ore al sabato e tre la domenica (a settimane alterne).

Le cose, devo dire, stanno lentamente cambiando: se due genitori si separano, salvi i casi di ragioni impeditive che vanno indagate e dimostrate, i figli possono vederli con un certo equilibrio, se non con tempi paritetici così come diversi tribunali stanno via via pronunciando [5].

Restano i danni degli affidi esclusivi ed interpretazioni in malam partem di distingui incoerenti tra collocamento ed affido che negli anni la giurisprudenza ha prodotto nel nome dell’interesse del minore.

Avv. Francesco Angelo Tesoro

[1] https://www.ifc.cnr.it/index.php/it/news/875-il-fenomeno-dell-hikikomori-e-oggetto-del-nuovo-studio-epidemiologico-ifc?highlight=WyJoaWtpa29tb3JpIl0 =

[2] Lichtenberg JD, Lachmann FM, Fosshage JL. I sistemi motivazionali. Bologna: Il Mulino, 2012.

[3] Stella Cervasio, Hikikomori, ovvero la malattia dei ragazzi, in La Repubblica, 14 febbraio 2013.

[4] Rothbaum F, Weisz J, Pott M, Miyake K, Morelli G. Culture and attachment. Security in the United States and Japan. Am Psychol 2000; 55: 1093-104.

[5] In senso conf. Cassazione; ordinanza n. 1993/2023.

Croce dei genitori, specie per quanti abbiano raggiunto una certa età, è l’obbligo di mantenere i figli ormai adulti; obbligo che, per i genitori separati non conviventi, si traduce nella corresponsione di un assegno mensile adeguato all’indice ISTAT.

La domanda che sorge è per quanto tempo l’obbligo permarrà invariato.

In verità, l’approccio giurisprudenziale della valutazione “caso per caso” che accompagna ogni ambito della materia familiare non conferisce certezze.

L’osservazione delle pronunce più recenti, tuttavia, reca una indicazione di tendenza che torna ad affidare al figlio maggiorenne la responsabilità che in età adulta quegli dovrebbe maturare naturalmente.

Una sentenza della cassazione risalente al 2020 (Cass. Civ., Sez I, ord. n. 17183/2020) si poneva in netto contrasto con i precedenti di allora affermando che, ferma ogni la valutazione del “caso per caso” (ossia, il termine del percorso formativo, la possibilità di reperimento di un lavoro, possibilità di esercitare un’attività lucrativa, anche in caso di non approfittanza o costituzione di diverso nucleo familiare), il limite anagrafico poteva stabilirsi di 30 anni.

Affermava, appunto, quella sentenza -in contrasto con i precedenti- che il figlio maggiorenne (rectius, trentenne) non poteva ostinarsi e indugiare nell’attesa di reperire il lavoro reputato consono alle sue aspettative, doveva agire.

La sentenza più recente va oltre segnando il cambio di prospettiva cui facevo cenno in incipit: “raggiunti i anni 29 può ritenersi -sulla base di presunzioni- che siano in grado di lavorare per provvedere al proprio mantenimento non risultando provata nella fattispecie alcuna disabilità o motivo ostativo né tantomeno un percorso di studi ancora da completare”.

La cassazione, quindi, pone di fatto una presunzione che non ribalta l’onere probatorio (di fatto ricadente sempre sul genitore che agisce per la riforma) ma introduce il tema dell’auto-responsabilità anteponendo il termine al completamento degli studi/percorso formativo (o all’abbandono) e reca un limite anagrafico ancor più rigoroso.

Ecco, dunque, i presupposti della domanda che tanti si pongono: qualora i vostri figli abbiano terminato gli studi (o li abbiano abbandonati) e non cerchino attivamente una autonomia (o si ostinino a cercarla esclusivamente in ambito lavorativo a loro confacente), non potranno contare sull’assegno per perseguire obiettivi che non siano concreti oltre all’età summenzionata.

L’ascolto del minore è l’istituto più sfuggente, assieme forse alle valutazioni di CTU ed alle variopinte forme di affido all’ente (rectius servizi sociali), che la procedura di affidamento minori conosca.

La sensazione è che acquisita, ob torto collo, all’Ordinamento interno per impulso soprattutto della Convenzione dei Diritti del Fanciullo la disciplina fatichi a dare lettura univoca delle risultanze e che ciò ponga distanza tra il diritto proclamato e quello praticato.

Nella disamina delle pronunce che seguono ho voluto sintetizzare indicazioni diametralmente difformi che la suprema Corte di Cassazione ha dato a fattispecie che, ad un primo esame, non differiscono poi molto nelle dinamiche condividendo, entrambe, l’elemento dato dal condizionamento di uno dei genitori.

Mi riferisco in primis, alla recentissima ordinanza n. 16231 dell’8 giugno 2023 della prima sezione. In questa, a fronte dell’ascolto, era emerso che il padre -ricorrente in Cassazione- aveva coinvolto la figlia in questioni economiche dei genitori e, in CTU, era anche emersa una sua mancata elaborazione del divorzio che, concludeva l’esperto peritale, poteva costituire motivo di pregiudizio.

Di tal ché, la Corte, valutava giustificabile e ben argomentata la pronuncia della corte d’appello che aveva aumentato i giorni di permanenza della minore al padre ma non aveva accolto i desiderata della figlia poiché essi non erano pienamente consapevoli in quanto indotti.

La seconda pronuncia in esame, più risalente, è l’ordinanza n. 25653/2020 che vedeva i ruoli genitoriali invertiti: questa volta era la madre ad aver esercitato condizionamento.

La Cassazione, tuttavia, riteneva che la fanciulla dovesse restare collocata presso la madre -malgrado le pressioni- poiché tale era comunque la volontà della figlia.

Ebbene, a prescindere dall’esito, sempre favorevole al mantenimento dello status quo, ossia del collocamento preesistente, sia nel caso di condizionamento dell’uno o dell’altro genitore, la nomofiliachia pare -all’esame- eccessivamente conservatrice ondeggiando, ora nell’una, ora nell’altra considerazione, pur di non cambiare molto la condizione delle cose.

Restano, almeno nei procedimenti summenzionati, alcuni principi assolutamente condivisibili come quello del diritto all’ascolto del minore, alla puntuale motivazione in caso di decisione di non procedere o di discostarsi dalle dichiarazioni del fanciullo operando, in caso di infradodicenni, valutazione della capacità di discernimento e dei rischi connessi l’ascolto diretto.

Quanti decidano di chiedere una modifica alle condizioni dei propri figli dovranno, quindi, fare serie riflessioni di opportunità con il professionista avvocato che avranno scelto considerando, di converso, che la materia è viva ed in rapida evoluzione e che la mera disamina dei precedenti della Corte di Cassazione costituisce solo una parte delle riflessioni da fare.

Servizi sociali e processi affidativi di minori

Per affrontare il tema in parola è indispensabile maturare il concetto che l’assistente sociale sia un professionista dalle molteplici funzioni; alcune delle quali, come vedremo, in conflitto tra loro.

Rappresenta, inoltre, nel divenire delle procedure giudiziali, un terminale di deflusso di situazioni (persone e relazioni) che per le più disparate ragioni hanno visto l’intervento fallimentare di altre professioni.

L’intervento dell’assistente sociale pone le radici nell’istituzione dei tribunali per i minorenni nel 1934 (l. 1404) e, nel tempo, vede trasformare, con l’evolvere dei costumi, la sua funzione dal trattamento dei minori “traviati e bisognosi di correzione morale”, alla funzione (ri)educativa, per giungere al sostegno di cui oggi sentiamo parlare e sul quale ci interroghiamo circa limiti e contenuti.

Nella riorganizzazione delle competenze Stato Regioni attuata dal D.P.R. 616/1977, i Comuni divengono l’ente deputato alla erogazione degli interventi in favore dei minori soggetti all’autorità giudiziaria; normativa, questa, resa attuale nel corpo della Legge quadro sul sistema dei Servizi Sociali del 2000 (L. 328).

Questo spiega alcune pronunce di “affidamento all’ente” nei casi più gravi di incapacità genitoriale.

Il corpo normativo anzidetto, tuttavia, non ha però delineato margini certi per determinare i contenuti delle prestazioni assistenziali ed ha lasciato, nel tempo, che prassi consolidate avanti il tribunale per i minorenni trasmigrassero tout court avanti i tribunali ordinari.

 

Attività assistente sociale: rilievi critici

Un primo ordine di rilevi critici, quindi si delinea già ed ha fondamento nell’origine delle deleghe e, quindi, nel genere di attività che all’assistente sociale vengono richieste: mentre, difatti, i tribunali ordinari delegano ai servizi di intervenire in cause che pongono problematiche di conflittualità nella relazione tra genitori, e quindi necessitano di un genere di intervento di ordine mediativo o coordinativo, i tribunali per i minorenni dispongono l’intervento dei servizi in procedure che vedevano il minore in stato di abbandono o di maltrattamento; il che, implica un genere di intervento assolutamente diverso dal primo.

Le attività cui il servizio sociale potrà essere chiamato potranno essere di vigilanza (per la segnalazione all’autorità giudiziaria delle situazioni di rischio o di pregiudizio), o di informazione rivolta al giudice (di indagine sulle condizioni di vita del minore ed al suo contesto familiare e sociale).

Potrà inoltre, essere demandato di funzioni di sostegno e di accompagnamento per la realizzazione dei dispositivi adottati dal giudice o di controllo sull’esecuzione dei provvedimenti del giudice.

Ebbene, mentre le prime attività descritte, ossia quelle inerenti la vigilanza per segnalazione all’A.G. e informative rientrano, obtorto collo, nell’alveo delle mansioni ascrivibili alle figure ausiliarie del giudice (art. 68 Cod. Proc. Civ.), le seconde, ossia di accompagnamento e controllo potrebbero dare maggiori problemi di legittimità se si considera che esse potrebbero esprimersi addirittura quando il processo è definito.

 

Cosa è cambiato con la riforma Cartabia

La recente riforma ha in parte posto rimedio meglio delineando, rispetto al passato, le attività che l’assistente sociale può svolgere nel processo.

L’art. 473 bis, n. 23 Cod. Proc. Civ., ad esempio, regolamenta l’intervento dei servizi sociali o sanitari nei procedimenti a tutela dei minori.

Recita la nuova norma che l’attività cui saranno chiamati a svolgere sarà indicata in modo specifico con fissazione di termini. Le parti potranno accedere alle relazioni depositate (1) e fare memorie. Le relazioni dovranno essere fondate su fatti oggettivi, su metodologie e protocolli della comunità scientifica.

Un quadro, quindi, assai più rispettoso dei principi informatori della materia rispetto al passato (2).

Il problema, tuttavia, si pone per quei provvedimenti che dettano intervento dei servizi per un tempo ultrattivo rispetto il processo, sia nei contenuti della delega, sia riguardo ai soggetti passivi (beneficiari del trattamento), sia nei tempi di durata.

Il contenuto dell’intervento (sociale o sanitario) deve essere specifico dell’attività demandata ma i termini, a norma di legge, saranno determinati solo per il deposito di relazioni. Da ciò, si desume che l’intervento dei servizi, qualunque sia il suo oggetto (sociale o sanitario) potrebbe non avere termine (3).

Non avendo, ancor’oggi, una cornice definita, il sostegno a favore della persona ben potrà essere rifiutato.

Parimenti potrà essere rifiutato, dal maggiorenne, l’intervento sanitario, terapeutico o psicologico.

Qualora, invece, il sostegno sanitario demandato all’ente vedesse un minore come soggetto passivo, il magistrato non potrebbe dimenticare di pronunciarsi con provvedimento specifico nell’ampio margine che l’articolo 333 c.c. concede disponendo una diversa ripartizione in campo sanitario che limiti quella naturale dei genitori in favore dell’ente stesso cui affida delega.

Definito il procedimento, tuttavia, non vi sarà verifica giurisdizionale stabile, nessun giudice che controlli, avendo previsto, la riforma, unicamente la facoltà di adire nuovamente al giudice competente (che sarà in linea di massima quello che ha emesso il provvedimento) in caso di difficoltà di attuazione o impedimenti.

Legittimati attivi (e passivi) della domanda saranno, normalmente, i genitori e gli stessi ausiliari, cui il 4° comma dell’art. 473-bis n. 38 c.p.c. dà facoltà di formulare domanda (anche verbale) ove sorgessero ulteriori difficoltà di attuazione.

Quanto al contenuto delle attività di sostegno, nel perdurante silenzio del legislatore, chi scrive ritiene possano avere contenuto pedagogico-clinico; notoriamente non sanitario.

Una questione pratica di non poco rilievo, infine, si porrà in quei Comuni di piccole dimensioni che vedono la presenza di un solo assistente sociale il quale, per ovvie ragioni, non potrà svolgere funzioni investigative durante il processo e poi, terminato quello, assumere veste di operatore del sostegno alla persona che ha investigato.

Alla luce delle considerazioni che precedono, appare certamente più definita, rispetto al passato, la funzione del servizio sociale nell’ambito processuale. Restano, tuttavia, ampie zone d’ombra nelle attività che esso potrà svolgere a processo concluso.

(1) Per ottenere altro genere di documentazione, ossia per la documentazione non depositata nel processo, gli utenti del servizio sociale potranno fare accesso agli atti facendo leva anche sulla normativa deontologica dell’assistente sociale che, a mente dell’art 13 C.D., impone all’assistente sociale di adoperarsi in tal senso.

(2) Per la violazione dei quali principi lo Stato italiano veniva più volte condannato dalla CEDU; per ultimo, con sent. del 24 giugno 2021 – ricorso n. 40910/19 – Causa A.T. contro Italia.

(3) Sulla inopportunità degli incontri protetti senza termine si veda il Manuale psicoforense dell’età evolutiva, Giuffrè editore, 2018.